Da oggi Petro è presidente. Un appello per la liberazione dei detenuti

 

Geraldina Colotti

“Si dice che nessuno conosce davvero una nazione finché non è stato in una delle sue carceri”. La frase di Nelson Mandela apre una petizione indirizzata a Gustavo Petro e a Francia Marquez, presidente e vicepresidenta della Colombia che domenica hanno assunto ufficialmente l’incarico. Lo firma il Movimento Nazionale Carcerario (Mnc), accompagnato da centinaia di organizzazioni e personalità.

Il documento offre una sintesi dei problemi strutturali che affliggono un paese come la Colombia, dove gli spazi di agibilità politica per l’opposizione sono stati chiusi con l’assassinio del leader liberale Eliecer Gaitan, il 9 aprile del 1948, e dove la violenza è diventata strutturale. Di quante nefandezze debba rispondere l’oligarchia al soldo di Washington che ha stroncato nel sangue ogni tentativo di cambiare gli assetti di podere per la via democratica, lo sta dimostrando la Commissione per la verità, contemplata dagli accordi di pace tra governo e guerriglia, firmati all’Avana nel 2016.

L’organismo, ostacolato con ogni mezzo dal figlioccio di Uribe, Ivan Duque, sconfitto nelle urne da Petro, ha anche riportato a galla il massacro dell’Union Patriotica (Up). Un partito nato nel 1984 come parte degli accordi di pace firmati allora tra il governo di Belisario Betancur e la guerriglia delle Farc-ep, per consentire la partecipazione politica anche agli ex-combattenti. In uno dei suoi ultimi rapporti, quest’anno, la Giurisdizione speciale per la pace (Jep) ha calcolato che, tra il 1984 e il 2016, furono assassinati almeno 5.733 militanti della UP. Tra questi, due candidati presidenziali, 5 senatori in carica, 11 parlamentari, 109 consiglieri comunali e vari ex dirigenti, 8 sindaci e altrettanti ex-sindaci.

Sono state acquisite anche importanti testimonianze su un altro massacro politico, quello del 6 novembre 1989. Allora, l’esercito prese d’assalto il Palazzo di giustizia, occupato dai guerriglieri dell’M-19 provocando un centinaio di morti, compresi 11 magistrati della Corte Suprema. Una perizia medica e ulteriori deposizioni hanno però dimostrato che nessuno dei proiettili con i quali sono stati uccisi proveniva dalle armi dei guerriglieri.

Gustavo Petro ha fatto parte dell’M-19. Come ha raccontato egli stesso in twitter, venne arrestato il 7 ottobre del 1985 quando era consigliere comunale di Zipaquirá, la terra dov’è nato. L’esercito lo torturò per 4 giorni nella Scuola di Cavalleria. Poi, venne condannato a 2 anni di carcere per porto d’armi abusivo. Dopo essere stato liberato, a marzo del 1987, andò in clandestinità. Da lì, sostiene di aver gettato le basi per il processo di pace del gruppo guerrigliero, che nel marzo del 1990 cesserà l’attività, iniziata nel 1970 dopo la truffa elettorale del governo e dei partiti tradizionali.

L’M-19 diventò poi un movimento politico di sinistra, noto come Alianza Democrática M-19, una delle forze politiche più importanti nell’Assemblea Nazionale Costituente del 1991. Dopo la dissoluzione del movimento, Petro fonderà il partito Colombia Humana. Benché sia stato un uomo politico delle istituzioni, ex senatore ed ex sindaco della capitale, Bogotà, Petro ha avuto modo di sperimentare l’uso del law-fare da parte dell’oligarchia colombiana, esercitato per conto del Torquemada ex Procuratore generale Alejandro Ordoñez, braccio giudiziario di Uribe, che aveva il compito di perseguire e mettere fuori-legge gli oppositori politici inventando scandali inesistenti. Per sua decisione, Petro venne destituito dall’incarico di sindaco e inabilitato per 15 anni, in base a un presunto scandalo relativo alla raccolta dei rifiuti.

Il documento-appello ricorda come quel meccanismo guidi un sistema penale mutuato da quello degli Stati uniti. “Il sistema penale accusatorio, importato dagli Stati uniti – scrive il Movimento Nazionale Carcerario -, è stato un fallimento, per non parlare della costruzione di mega-carceri che ha imitato il modello del Buró Federal de Prisiones, che antepone la sicurezza alla concezione di un modello umanista che consenta recuperare realmente chi trasgredisce la legge”.

Una logica che si è imposta nelle varie decisioni del Congresso colombiano in materia giudiziaria e criminale e che riempie le carceri di persone colpevoli del “delitto di povertà”, soprattutto le donne. Una politica – denuncia l’appello –  che ha portato all’aumento di nuovi tipi di istituti penali e all’aggravamento delle pene, rafforzando un sistema penale basato “su una visione vendicativa, applicata come diritto penale del nemico, contrario alla garanzia dei diritti umani fondamentali per le persone private di libertà”.

Il documento fa riferimento ai prigionieri e alle prigioniere politiche, ancora in carcere a 5 anni dalla firma degli Accordi dell’Avana, che portarono alla legge di Amnistia e indulto, di cui ha usufruito un gruppo importante di ex- guerriglieri, ma non ha riguardato tutti. Ora, si chiede al presidente e alla vicepresidenta di porre fine alla prigionia politica, facendo leva sulla Costituzione che, “al suo articolo 150, comma 17, attribuisce al Congresso della Repubblica la facoltà di concedere amnistie e indulti generali”.

I firmatari si rivolgono al nuovo governo affinché rimettano in libertà: “esponenti del movimento sociale, vittime di montature giudiziarie, tra cui le persone perseguite e incarcerate nel corso dell’ultimo sciopero generale, così come gli appartenenti a tutte le organizzazioni insorte e i combattenti delle ex Farc-ep, firmatari degli accordi dell’Avana, che ancora rimangono in prigione”.

Al contempo, si esorta il governo di Petro e Marquez “a includere nella loro agenda legislativa la fine dell’estradizione, il rimpatrio umanitario di quanti si trovino nelle carceri straniere o soffrano di gravi malattie”. Si tratta – scrivono i firmatari –  di un atto di sovranità nazionale in un paese che cerca di avviarsi verso una piena democrazia che garantisca i diritti dei cittadini, compresi quelli privati di libertà.

E sono in molti, dentro e fuori il paese, a sperare che la storica assunzione d’incarico del nuovo presidente e della vicepresidenta, che conosce bene i problemi degli “ultimi” e di quella “immensa maggioranza di donne private di libertà, accusate o condannate per delitto di povertà” di cui parla l’appello, sappiano mettere mano con coraggio anche alla crisi strutturale del sistema penitenziario e carcerario.